È da pochi minuti che siamo arrivati sull’altra sponda del fiume Buriganga. Appena messo piede nell’enorme cantiere navale di Dacca, ho il solito nodo alla gola che più volte in questo Paese mi ha preso con la stessa intensità di un pugno allo stomaco.
Ma questa volta non è per l’odore insopportabile, il cibo troppo piccante o il rumore di 169 milioni di abitanti che si muovono in uno spazio che equivale alla metà dell’Italia. Questa volta è perché ci troviamo di nuovo davanti alla grande determinazione dei bengalesi, un popolo che lotta per sopravvivere e si dà da fare in qualsiasi ambito con qualsiasi mezzo. Uomini e bambini impegnati nel lavoro di demolizione delle navi, un lavoro estenuante senza nessun tipo di tutela.

La distruzione delle navi è un processo impegnativo, dovuto alla complessità strutturale delle navi e a problematiche legate all’inquinamento ambientale e alla salute delle persone che lavorano. Nelle navi, infatti, sono presenti numerosi materiali tossici, fra cui residui petroliferi, amianto e altre sostanze pericolose.
Spesso armati solo di un piccolo utensili come un martello o un coltello, i lavoratori svitano i bulloni, spezzano i rivetti e rompono le saldature, in modo da recuperare la maggior quantità di ferro possibile.


Nonostante il frastuono un gruppo di lavoratori si accorge di noi e si avvicina subito con tante domande e sorrisi.
Cerchiamo di rispondere alle loro curiosità, ma approfittiamo anche per fare qualche domanda riguardante questo settore. 
Lavorano in team da 10 o 14 persone, non hanno nessun tipo di protezione per il viso, nessuna tutela sociale e la maggior parte delle operazioni vengono svolte alla vecchia maniera, a mani nude e con la forza delle braccia, senza l’ausilio dei macchinari moderni.
I più fortunati oggi lavorano sulla parete all’ombra o sotto la nave. Quello più fortunato ancora è una sorta di supervisore che fuma una sigaretta dopo l’altra, seduto su una sedia di plastica accanto alla bombola del gas da una parte e dall’altra una delle tante capre con la maglietta che si occupano del riciclo della verdura caduta dalle imbarcazioni.
C’è chi è qui da molti anni e, in qualità di “senior” riesce a guadagnare perfino 700TK (circa 7€) al giorno, mentre altri sono stati assunti da poco, come Rashel e la loro paga non supera i 5€ giornalieri. Rashel è un ragazzo di 17 anni, mentre passeggia con destrezza su un’impalcatura di legno appesa a due corde di canapa ci racconta che per dipingere una fiancata ci vogliono circa 300 secchi di pittura. Sembra contento di quel lavoro, o forse il suo timido sorriso è dovuto alla nostra presenza. È un bel ragazzo, ha dei denti molto bianchi e delle mani molto gialle che, senza nessun tipo di guanto ma con uno straccio stretto nel pugno, si immergono nel secchio di vernice. Assieme a lui sull’impalcatura c’è un altro ragazzo nostro coetaneo, ci chiede più volte se siamo stati alle Maldive, lui conosce bene quelle isole perché è tornato da poco in Bangladesh dopo aver lavorato per anni all’estero. Improvvisamente una voce dall’alto lo rimprovera per aver parlato con noi, ci salutiamo con un sorriso che racconta più di mille parole.

Questo nodo alla gola non se ne vuole andare, mi rifugio dietro alla macchina fotografica e nascondo le mie lacrime che non vogliono rovinare il piccolo momento di svago che la nostra presenza ha creato tra gli operai. Per l’ennesima volta in questo viaggio mi vergogno di tutte le volte che mi sono lamentata delle cose che, alla vista di situazioni come questa, appaiono estremamente banali e superflue. Non riesco a non sentirmi in imbarazzo per il mio essere chi sono.
Sì, perché lo scarto tra essere privilegiati o meno non è giocato sul superfluo ma sul necessario. E la mia condizione non dipende da particolari meriti o esigenza, ma solo dal caso ineffabile che mi ha fatto nascere nella parte “giusta” del mondo.

 

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