Sembra di essere stati catapultati dentro una di quelle scene dei film o in una pagina di un libro di storia, dove gli antichi egizi costruiscono le piramidi sotto il sole cocente e la luce offuscata da una quantità di polvere inimmaginabile rendendo tutto di colore d’ocra.
Invece ci troviamo in una delle 11 mila fabbriche di mattoni del Bangladesh,
spesso illegali, simbolo dell’urbanizzazione selvaggia e della febbre di costruzione che domina queste parti del mondo e non solo.
Il paesaggio è dominato da grandi campi dove avviene un vero e proprio sfruttamento, oltre alle condizioni sociali e umane indecenti, c’è anche l’inquinamento delle ciminiere troppo basse e troppo vicine ai centri abitati. Intere famiglie lavorano dentro le fabbriche di mattoni, che poi il “dentro” non esiste propriamente, il tutto si svolge a cielo aperto e che faccia caldo da morire o ci siano piogge torrenziali poco importa, la vita qui continua. Spesso queste famiglie arrivano dalla campagna con la falsa convinzione di un futuro migliore. Finiscono così per lavorare come schiavi mettendo a rischio la loro vita e quella dei loro cari ogni istante.


Osserviamo degli uomini scavare la terra e creare degli ammassi di fango, molto vicini ad una sorta di macchinario la cui cinghia, se dovesse cedere (e non è un’ipotesi azzardata in questo Paese), taglierebbe la testa di quei due uomini senza nessuna pietà. Avvolti in nuvole di polvere rossa, cerchiamo di tenere la bocca chiusa e raggiungiamo degli altri uomini accovacciati per terra in una posizione molto scomoda che, aiutandosi con una matrice e un filo di spago legato alla caviglia, danno la forma ai mattoni. Veniamo impressionati dalla velocità con cui lavorano queste persone, le nostre riprese video sembrano velocizzate. Questo succede perché il loro guadagno dipende dalla quantità di mattoni prodotti: più ne fanno, più guadagnano. In media, riescono a costruire 4000 mattoni al giorno, per un compenso di 2 o 3€ circa. Niente.
È dicembre, ed è inverno anche qui eppure noi siamo in maniche corte e stiamo sudando. Cos’è questo posto in piena estate, quando le temperature toccano i 45°C e l’umidità è al 95%?
Un inferno, per tutti. Per chi scava nel fango, per chi costruisce i mattoni, per chi li brucia e per chi li trasporta manualmente ai camion. Donne, uomini e bambini coinvolti in una delle industrie più proficue del Bangladesh.
Sì, anche bambini. Da buoni occidentali ci siamo subito indignati: ma non è vietato il lavoro minorile in questo Paese? Questi bambini non dovrebbero essere a scuola o a giocare? Sì, dovrebbero. Ma qui l’alternativa per la maggior parte della popolazione non è tra lavoro e scuola, tra fatica e gioco, ma tra lavoro e strada, tra fatica e fame. Questi bambini stanno lottando, insieme alle loro famiglie, per non affondare. Se li mandi via da qui senza un’alternativa concreta e studiata per il loro benessere, non andranno in ludoteca ma a fare la fame o a vedere i genitori morire di sfinimento.
Finita la giornata, i lavoratori esausti si rifugiano nelle “case” di lamiera adiacenti ai mattoni. Trovano anche la forza di sorridere a noi e alla vita, alla fortuna di avercelo un lavoro. Ci domandano una foto ritratto o una sigaretta.
Mai come in questo Paese abbiamo visto la straordinaria forza della sopravvivenza, mai come qui ci siamo meravigliati di quanto abbiamo da imparare dalla resilienza di questa gente.

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