Nella mia prima stagione in rifugio ero stato assunto come aiutocuoco, ma come spesso succede oltre i 2000 metri “vale tutto”, e quindi mi trovai a fare ogni cosa utile per il corretto funzionamento della struttura. Si rifacevano i numerosi letti, si pulivano i bagni, si stendeva la biancheria ritirandola con rapidità quando doveva atterrare l’elicottero, si trasportavano fusti e si spinavano birre, poi si correva a preparere teglie di canederli e pastin, si sfornavano torte e infine si consegnavano medagliette del rifugio per ricordo o per conquista.
Ogni giornata era scandita da ritmi costanti e da imprevisti fin dal mattino presto cessando solo alle 22:00 quando la luce si spegneva per tutti.

In quell’estate di 11 anni fa ho stretto amicizia con un pastore.
Una bella amicizia all’ombra della dolomia. William passava ogni sera intorno alle 21.30 poco prima di chiudere la porta definitivamente e ordinava un bicchierino di grappa. Non era il benvenuto nella sala da pranzo dai gestori, ma non si faceva problemi ed entrava mentre finivamo di riordinare. Lo sentivo al bancone mentre pulivo i fornelli in cucina e allora dalla finestrella mi affacciavo rassicurandolo che a breve sarei uscito a servirlo personalmente.
In testa portava sempre un berretto di lana cotta con una ciocca dalle tonalità verdognole, i capelli neri spuntavano sulla nuca raccolti in una coda di cavallo e spesso gli occhi non si vedevano sotto il frontino lasciando in evidenza un naso importante. Vestiva una camicia a quadrettoni dove da uno dei due taschini spuntava il più delle volte un pacchetto di sigarette malconcio, in vita una cintura marrone teneva su dei pantaloni a coste blu di flanella e ai piedi indossava degli scarponi in cuoio dal buon carrarmato con dei lacci rossi.
Gli altri non sopportavano il forte “odore di alpeggio” che si portava dietro e il suo fare un po’ burbero che alle volte aveva. A me invece piaceva un sacco, forse perché rappresentava quel “fuori” che vedevo poco durante le mie giornate tra cucina e attività varie al rifugio.

Ci siamo studiati un po’, ma ben presto abbiamo capito che entrambi avevamo bisogno di fare due parole a fine giornata o semplicemente godersi il silenzio e il buio. Quando a tarda sera riuscivo a sgattaiolare fuori dal rifugio lo raggiungevo ad un masso dove avevamo appuntamento. William per rendere la fredda roccia più comoda la copriva con la sua mantella di lana cotta, seduti si scrutava la valle e le luci immaginando cosa succedeva giù in paese, mentre le volte che pioveva ci mettevamo comodi in una casetta per il fieno e aspettavamo di sentire se la pioggia faceva scatenare qualche distacco sulla montagna. Nelle passeggiate notturne mi insegnava molte cose sugli animali selvatici e mettendoci  in ascolto del bosco mi aiutava a riconoscere il verso degli uccelli tra cui quello del gufo di cui era un ottimo imitatore. Arrivava poi il momento di controllare le vacche a gruppetti di sei o sette individuandone gli occhi come dei puntini luminosi in mezzo all’oscurità.
Ormai le giornate le vivevo nell’attesa di una nuova serata con Gu, nella speranza di imparare sempre qualcosa di nuovo, inoltre aveva un bel tratto e infatti si divertiva a fare le caricature dei viandanti che incontrava per i sentieri e che poi raggiungevano il rifugio. Ma la sua bravura la dimostrava nell’intagliare il legno con un debole su soggetti come gnomi, folletti e spiriti che animano i boschi. Non ho mai capito se ci sapeva veramente fare con le bestie o ci provava, perché infondo era un lavoro che gli lasciava tempo di esprimersi, di pensare e viaggiare i restanti mesi dell’anno.
Cercavo di prendere il meglio di questa persona curiosa che portava con sé sempre un binocolo. Gli piaceva guardare le rughe della roccia e avvistare qualche capriolo per i boschi. Aveva una sua posizione, una specie di rupe alta una decina di metri sulla quale si sedeva mimetizzato tra i mughi e dominava tutta la vallata. So bene che mi osservava durante il giorno, quando avevo una mezz’ora di libertà correvo fino a una forcella o su per il ghiaione per poi scendere di corsa, ma mi teneva d’occhio anche quando provavo a farmi male con le scarpette d’arrampicata intorno ad un masso erratico poco distante dalla cucina. Era incuriosito dal mio approccio alla montagna, mi chiedeva perché cercavo sempre un po’ di adrenalina invece di riposarmi sotto i rami di un larice come lui.
A settembre con il lavoro che piano piano si allentava gli ho fatto una sorpresa e sono andato a trovarlo in malga con la colazione, gli ho regalato qualche maglia per il freddo che avrebbe potuto patire in ottobre, è stato come un saluto e un ringraziamento per tutte le avventure combinate assieme. Gu preso alla sprovvista, ma volendo lasciarmi qualcosa di suo mi ha regalato il binocolo… “Jek, con questo potrai guardare sempre lontano”.

Gu dopo quell’estate non l’ho più rivisto, spero sia diventato un’artista del legno e mi auguro si sia aperto una bottega dove vendere le sue opere, perchè con quelle mani piccole, ruvide e piene di taglietti riusciva a realizzare grandi cose da un semplice ceppo di legno.
Mi ha lasciato la curiosità di conoscere altri pastori, persone magiche e misteriose, metodiche, solitarie che si prendono cura di un gregge o di alpeggio senza soffrire mai troppo la solitudine e se avvicinate con rispetto si aprono lasciandosi conoscere rivelando un’infinità di storie vissute tra i parti più alti.

 

 

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