Questo racconto è stato pubblicato sulla rivista SKIALPER n.119 – A PIEDI – Agosto Settembre 2018

Nei viaggi di Altripiani ci capita molto spesso di essere le uniche persone che in quel momento, in un determinato territorio, vedono un paesaggio, lo fotografarlo e poi passo dopo passo lo attraversano con il privilegio di essere indisturbati.
Una sensazione magica, hai appena scattato una bellissima foto e all’improvviso sei tu stesso un puntino in quell’infinito di colori. Ne fai parte, qualcosa di unico, di raro al giorno d’oggi.
Sentirsi soli e stare bene. Una motivazione per continuare, per andare curiosi oltre quella montagna e scoprire cosa ti aspetta ancora. La fatica viene sempre ricompensata da un nuovo paesaggio, da una veduta più alta, più ampia.
Potrebbe assomigliare a quel momento in cui vedi un pendio di neve vergine con la giusta pendenza e inizi a far scivolare gli sci, premendo con forza sulle gambe per impostare al meglio la prima curva. Oppure quello specchio d’acqua che si forma in laguna la sera, poco prima del tramonto e con una minima spinta del remo la barca taglia leggera la superficie senza fare troppe onde, in un silenzio stupefacente.
Quello che vediamo continuamente con gli occhi ci influenza l’animo e ci entra in circolo. Ogni giornata trascorsa è un piccolo viaggio da assimilare con calma nel sacco a pelo prima di dormire. Trascorriamo intere giornate senza incontrare nessuno e c’è solo l’imbarazzo della scelta di dove mettere la tenda per la notte. Altre volte passiamo di villaggio in villaggio scortati da bambini curiosi o da anziani che ci chiedono da dove arriviamo e in che direzione proseguiamo. Ciascuno ci invita a bere una tazza di tè, sono tutti molto gentili e le case berbere hanno la caratteristica di essere dei rifugi perfetti, con fresche stanze rettangolari al riparo dal sole nelle ore più calde. Alcune volte invece preferiamo continuare a camminare, senza spezzare il ritmo, perché negli anni abbiamo imparato che in Marocco un bicchiere di tè si trasforma spesso in un pranzo a più portate.

Mhtar non lo avevamo avvisato del nostro ritorno, non sapevamo neppure che nascondesse un vecchio cellulare tra le pieghe del suo burnus, la veste berbera con cappuccio ormai sbiadita dal sole dell’Alto Atlante. Siamo tornati al suo douar dando per scontato che fosse là.
La strada la conosciamo a memoria e si differenziava dall’anno precedente solo per il colore della vegetazione.
Al nostro arrivo bussiamo forte al grande portone di ferro, ma nessuno risponde.
Iniziamo allora a mostrare le foto stampate a qualche bambino e subito veniamo trascinati in cima alla collina dove svetta il minareto e una dozzina di uomini stanno risanando la moschea. Le foto di Mhtar passano di mano in mano con rapidità e ciascuno reagisce divertito a modo suo. Qualcuno si è ricordato di noi o dei nostri grandi zaini colorati, inizio a scattare qualche foto e ne organizziamo subito una di gruppo.
Ci invitano a lasciare le nostre cose in una stanza adiacente alla moschea, chiudono con il lucchetto e ci lasciano la chiave. Per noi non c’è alcun problema di sicurezza, abbiamo fiducia in queste persone, ma capiamo che questo è un segno di ospitalità e rispetto da parte dell’intero villaggio.
Ci indicano un luogo oltre un promontorio dove Mhtar è andato a lavorare quel giorno.
Non capiamo cosa è andato a fare, ma poco importa. Forse doveva aiutare un amico a raccogliere il miele, noi lo vediamo tornare con una vanga in spalla e sporco di fango.
Quando ci vede ad aspettarlo davanti la porta di casa ormai inizia a fare buio e anche la moglie Naima è rientrata da poco dai campi. Ci abbracciamo forte più volte e, riposti gli attrezzi da lavoro e legato l’asino, con un paio di gesti premurosi ci invita ad entrare in casa. Senza pensarci troppo apre la porta di una lunga stanza rettangolare, che era già stata la nostra camera, e dopo qualche minuto ci sembra di non essere mai partiti. Notiamo solo alcune piastrelle nuove in cucina e che l’albero di arance nel cortile interno ha più frutti dello scorso anno.
Come nelle migliori famiglie ognuno ha già la sua mansione.
In pochissimo tempo la cena è pronta, le mani lavate e possiamo finalmente sederci in un angolo del cortile attorno al basso e rotondo tavolino ricco di ogni bontà. Noci, mandorle, miele che si consuma cerimoniosamente in compagnia assieme al tè, zuccherato con zollette irregolari spaccate da blocchi più grossi conservati in scatole ermetiche. Poi l’olio, il burro, alle volte il latte se le bestie lo consentono.
Segue sempre una tajine con quel sapore di misto spezie marocchine e la fantasia di chi la prepara. Per chiudere un cesto di frutta fresca: banane, mele, arance e datteri.
Si sta bene, c’è una leggera brezza che assieme alla stanchezza lascia spazio al silenzio mentre con il naso all’insù verso le stelle iniziamo a gustare una nuova notte in Alto Atlante. Prima di dormire dico a Glorija: «Eccoci qua, siamo tornati dove meglio stiamo, nella dimensione quasi nessuno».

Con il susseguirsi delle giornate siamo riusciti ad apprezzare la serenità del luogo, la semplicità dei gesti quotidiani e adeguarci al ritmo del villaggio. Ma da quando abbiamo iniziato ad attraversare lentamente le catene montuose tracciando nuovi itinerari c’è una situazione che mi piace moltissimo ed è comune a tutti i viaggi Altripiani: la lettura della carta geografica con le persone del luogo.
Il più delle volte è difficile reperirne una dettagliata, soprattutto da casa e anche sul posto, quindi mi studio foto prese dal satellite che poi stampo e plastifico con accuratezza.
Orientarsi in un territorio con paesaggi che non conosci può risultare difficile, c’è sempre la speranza che vada tutto alla perfezione, ma si hanno anche momenti di forti emozioni e di grande stanchezza. Da casa non si può prevedere la traccia, a volte il sentiero non esiste nemmeno e allora si mantiene una direzione, la più logica a vista, interpretando il terreno.

Ora si sta per concludere un’altra magnifica giornata. Abbiamo terminato da poco la cena iniziata con un aperitivo di mais saltato in padella, dopo una di quelle giornate lunghissime immersi nella natura, quando senti che nei polmoni circola finalmente aria pura, che le mani hanno lavorato con energia e le dita portano ancora il colore verde dei campi. Abbiamo raccolto fasci d’erba fresca con Naima e le altre donne del villaggio, fatto il pane e spostato grosse quantità di pietre con cui Mhtar realizza a scalpello le sue macine che poi vende al souk settimanale.
Nella stanza dalle pareti verdi e la porta di colore rosa ci passiamo di mano in mano gli A4 con le videate del territorio e provo a ripetere tutti i nomi dei villaggi della valle, come fosse un gioco. Il vero problema è che per noi i nomi sono tutti simili e impossibili da ripetere e intanto la stanchezza vuole trasformarsi in sonno.
Per dare una svolta alla situazione e provare a fare ordine ho messo in fila i popcorn avanzati… ognuno rappresenta un villaggio o una montagna. Al momento ci sembra la cosa più ovvia da fare e in coro ripetiamo più volte ad alta voce come fosse una filastrocca, ma credo di non essere ancora in grado di distinguere le differenze tra tutti i douar.
Quello che conta veramente in queste situazioni è la condivisione del singolo momento, stare così, a gambe incrociate, attorno ad un tavolino sforzandosi di provare ad esprimersi con qualche parola di berbero.

Immergersi, adeguarsi, aiutarsi e mettersi in gioco. Andiamo e torniamo in una terra fino a quando non abbiamo capito qualcosa in più della quella cultura. Non è sempre facile, ma l’impegno è quello di farsi accettare, perché un po’ alla volta non sei più l’ospite, ma un amico, uno di casa che è solamente andato via per un po’.
Nelle famiglie berbere che abbiamo conosciuto in questi anni ridiamo come non ci capita mai. E’ un ridere sano, sincero, dove anche il solo suono di una parola pronunciata male diventa puro divertimento proprio come questa sera.
Prima di salutare i nostri amici e riprendere il cammino per andare a scoprire una nuova valle ci si scambiano sempre i contatti. Glorija è brava, ordinata e paziente in questa fase, ma rimanere in contatto e avere notizie fresche non è mai facile. La corrispondenza è molto lenta e ogni tanto i nostri pacchi con provviste o vestiti per i bambini non sappiamo nemmeno se arrivano a destinazione. Così l’unica soluzione è tornare sul posto, vedere cos’è cambiato, chi c’è ancora, chi ha avuto figli e che colori ha il paesaggio in quella determinata stagione.

Ritornare è per noi diventato una filosofia di vita. Vogliamo chiamare tutti per nome tanto che non scattiamo fotografie a caso, perché in ogni ritratto c’è la storia di una persone e del luogo che gli appartiene. Perché ritornare è anche recuperare e restituire qualcosa a qualcuno che non ha avuto paura di accoglierti in casa.
Di anno in anno si aggiungono viaggi, esperienze, delle nuove linee e sta diventando sempre più impegnativo ritornare da ognuno, perché viaggiando leggeri senza rendersene conto si entra in un’altra dimensione, si entra nel cuore delle persone con la mente libera e la forza della curiosità reciproca.
Ci sentiamo spesso come una matita leggera che disegna una mappa di traiettorie nuove, ricche di identità sempre più preziose e pronte a testimoniare la bellezza e la fragilità dei luoghi remoti.
Ritornare non è sempre facile, ma l’impegno è quello di farsi accettare, perché un po’ alla volta non sei più l’ospite, ma un amico, uno di casa che è solamente andato via per un po’.

 

 

Altro in Alto Atlante